BOSNIA-ERZEGOVINA: PACE E GIUSTIZIA ANCORA LONTANE. MONS. KOMARICA, NON CI STANCHIAMO DI SPERARE
La pesante eredità della guerra degli anni Novanta si fa ancora sentire sulle popolazioni balcaniche. In particolare la Bosnia soffre – secondo molti osservatori – degli errori di Dayton. Il vescovo di Banja Luka fa il punto della situazione: sulle sue labbra tornano le parole verità, giustizia, pace, sviluppo.
Sono trascorsi oltre 25 anni dall’inizio del conflitto in Bosnia-Erzegovina. Quasi quattro anni di guerra, violenze di ogni genere, distruzioni materiali… E ancora oggi nel Paese, che faceva parte della ex Jugoslavia, si faticano a intravvedere un consolidamento della pace, una reale convivenza tra diverse etnie e comunità religiose. E la stessa prospettiva europea appare lontana. Il Paese avrebbe bisogno di democrazia, diritti, crescita sul piano economico e sociale. Mons. Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka, traccia per il Sir il punto della situazione e rilancia parole di speranza.
Quali sono i problemi principali rimasti irrisolti dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina che impediscono alla gente di vivere una vita tranquilla e normale?
L’accordo di pace di Dayton ha fermato lo spargimento di sangue ma non la guerra in Bosnia-Erzegovina, perché purtroppo non ha portato né diritto né giustizia agli abitanti di questo Paese distrutto. Nel periodo dopo la guerra, i frutti amari dell’accordo e la sua attuazione sono diventati causa di lotte e litigi tra i politici locali.
Così invece di ricostruire il Paese a tutti i livelli di governo sono arrivate la corruzione, la criminalità e l’instabilità,
fattori che impedivano ogni seria prospettiva europea del Paese. In tutto questo, non sono mancate le molteplici interferenze da oriente, sia della Russia che della Turchia e dei Paesi arabi. I criminali di guerra sono stati protetti, e addirittura hanno goduto di numerosi benefici, incluse altre funzioni politiche. Poi ci sono le vittime della guerra – sfollati, detenuti – mentre in molte parti del Paese è stata effettuata una vera e propria pulizia etnica che ha colpito, in modo particolare, centinaia di villaggi dei croati (cattolici) della parte nord-ovest della Bosnia.
Ci sono i crimini di guerra non processati, i diritti umani di vittime civili, gli sfollati interni e i familiari dei dispersi. Crede che i Tribunali interni riusciranno a portare a termine queste cause?
Sì, ci sono numerosi crimini di guerra non processati, specialmente sui croati – i civili nell’entità della Republika Srpska. I diritti umani delle vittime civili, degli sfollati e dei membri delle loro famiglie sono molto spesso solo sulla carta. Purtroppo, non c’è alcuna volontà politica perché i Tribunali nazionali funzionino correttamente, soprattutto per completare i tanti processi. Queste “anomalie” derivano dalla mancata applicazione del diritto e della giustizia: come a dire, vale la legge del più forte!
C’è un senso di giustizia mancata? È possibile risolvere questo problema?
Certo che è possibile, se si vuole. Ma non lo si vuole. Su questo pesa l’atteggiamento dei politici nazionali, ma anche di altri Paesi che da noi hanno un peso politico notevole. Non c’è unità, determinazione, correttezza e credibilità e questo è evidente. Per i nostri concittadini, inoltre, è difficile capire perché i Paesi più influenti del mondo – Stati Uniti e Russia, oltre all’Unione europea, per non parlare della Turchia e degli influenti Paesi islamici – non riescono a rendere il nostro piccolo Paese pienamente democratico e sicuro, in modo che tutti i suoi abitanti vivano in pace, con diritti assicurati e vera giustizia.
Nell’incontro con l’Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, Valentin Inzko, lei ha denunciato i silenzi per i crimini compiuti durante la guerra nei confronti delle suore, dei sacerdoti e dei fedeli della sua diocesi e di quella di Sarajevo. Potrebbe citare qualche esempio concreto?
L’Alto rappresentante lamenta di avere le mani legate in questo ambito… Ciò significa che Inzko non può obbligare le Procure a procedere con i processi su questi crimini. Nella diocesi di Banja Luka, ad esempio, sono stati uccisi quattro parroci, conosciuti come operatori di pace, altri quattro sacerdoti sono morti a causa di gravi torture e la stessa sorte è toccata a un religioso e a una religiosa. Tutto questo è stato compiuto dalle autorità dei serbo bosniaci nell’area della mia diocesi, dove, grazie ai grandi sforzi di parte cattolica, quasi non è esistito alcun conflitto durante la guerra.
Il primo sacerdote rapito e ucciso è stato il parroco di Nova Topola, Ratko Grgić, prelevato dalla sua casa parrocchiale il 16 giugno 1992. Le autorità delle entità della Repubblica serba ancora non vogliono restituire il suo corpo per poterlo seppellire, nonostante le mie innumerevoli richieste e interventi da varie istituzioni.
Nessuno è stato sanzionato per i sacerdoti assassinati né per coloro che sono stati pesantemente maltrattati
con gravi lesioni fisiche, né per le religiose che sono state maltrattate a Nova Topola e Banja Luka. Noi cattolici, purtroppo, non abbiamo alcuno che prenda la parola in nostra difesa.
A fare giustizia doveva pensarci il Tribunale internazionale dell’Aia che il 31 dicembre ha terminato il suo mandato. Come valuta il suo lavoro?
Non mi ritengo sufficientemente competente sull’intero lavoro di quel Tribunale per poter esprimere un giudizio. In generale, il parere di molte persone qui è positivo sul lavoro compiuto dalla Corte dell’Aia. Ma alcune sue sentenze e decisioni non sono solo confuse, ma sono lontane dalla giustizia. Molti si sono domandati e si domandano: come s’insegnerà in futuro nelle nostre Facoltà il diritto internazionale dopo alcuni verdetti dell’Aia?
Quando la situazione è complessa, è difficile formulare dei giudizi. Ma, a suo avviso, chi ha fallito in Bosnia-Erzegovina: la comunità internazionale? I politici locali? Alcuni analisti sostengono che la guerra sia stata vinta dai criminali, indipendentemente se fossero serbi, bosgnacchi o croati.
Da numerose conversazioni con rappresentanti internazionali competenti, mi sono fatto l’idea che qui, nell’ex Jugoslavia, sia stata combattuta una guerra “per procura” tra le grandi potenze del mondo, come continuazione della Prima e Seconda guerra mondiale.
I nostri Paesi erano solo poligoni selezionati per misurare le strategie di guerra di grandi potenze. Sulle spalle della popolazione locale si è usata l’antica formula “divide et impera”.
Per la Bosnia-Erzegovina era necessaria una riconciliazione tra le varie etnie, invece molti passi, sia della comunità internazionale sia dei politici locali, hanno portato a ulteriori problemi e tensioni. È possibile vivere nello stesso territorio con diritti uguali per tutti?
Certamente, ma servono riforme istituzionali, scelte politiche orientate al bene comune, rispetto dei diritti e dei doveri e sviluppo economico e sociale. Il tutto sulla base di federalismo, decentramento, sussidiarietà, legittima rappresentanza politica di tutti e tre i popoli costituenti, ossia croati, serbi e bosniaci, come delle altre minoranze nazionali. Sfortunatamente tutto ciò è ancora lontano dalla realizzazione. I diritti umani – sia individuali sia collettivi – dovrebbero essere anche da noi resi possibili e attuati nella prassi, così come in ogni altro Stato del continente europeo, dove in pratica il governo garantisce pari diritti a ciascuno.
È evidente che le ferite ci sono. Come ripartire?
Le persone comuni, indipendentemente dal gruppo etnico o religioso cui appartengono, trovano facilmente un linguaggio comune e un “modus vivendi”. Molti hanno in pratica dimostrato disponibilità al perdono e alla riconciliazione. Ma servono anche la verità sul passato e la giustizia.
Nonostante tutto ciò, non siamo stanchi d’impegnarci per la verità e per la giustizia, così come per il perdono e la riconciliazione, la pace giusta e duratura nel nostro Paese.
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Iva Mihailova
Banja Luka, 4. siječnja 2018.